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gran sasso

Il Gran Sasso, punto centrale nella geografia dell’immaginario della regione, si trova al confine tra le province di L’Aquila, Teramo e Pescara.

Gigante buono, vicino cattivo, la sua presenza ha da sempre condizionato queste terre, forgiandone il carattere dei suoi abitanti come nessun altro elemento naturale.

“Eccoci qua. Siamo giunti all’ultima puntata del viaggio a Quota Mille, e non potevamo che chiudere nel posto più alto della nostra regione: sua Maestà il Gran Sasso d’Italia!” esordisce lo scrittore Peppe Millanta giunto sul Gran Sasso con le telecamere Rai di Sem Cipriani per l’ultima puntata della rubrica a cura di Paolo Pacitti, Quota Mille.

Con i suoi 2.912 metri d’altezza è il massiccio più alto degli appennini. Gli antichi romani lo chiamavano Monte Ombelico, per la sua posizione proprio al centro della penisola italiana. L’attuale denominazione di Gran Sasso risalirebbe invece al Rinascimento, anche se nei paesi intorno viene ancora utilizzato il nome medievale di Monte Corno.

“Il suo profilo –spiega Millanta– ha da sempre affascinato gli abruzzesi, soprattutto al tramonto, lasciando nascere numerose leggende: le sommità delle montagne sono infatti da sempre associate al divino, per la loro vicinanza con il cielo e le stelle. Già, ma quanto è alta questa montagna che sembra non finire mai? La domanda rimase senza risposta per secoli, fino a quando alla fine del ‘700, un giovane di Teramo decise di arrischiarsi per tentare l’impresa: il suo nome era Orazio Delfico”.

Delfico partì insieme a pochi altri uomini, armato di un barometro. Nel suo resoconto definisce la montagna “opera di Giganti”, e racconta di come il suo sguardo, arrivato in cima, non avesse mai visto prima tutto quello spazio libero davanti a sé.

Sbagliò la misurazione di pochissimi metri, cosa incredibile a pensare alla strumentazione dell’epoca, e a lungo la sua fu considerata la prima ascensione sul Gran Sasso. Agli inizi del ‘900 però, spuntò fuori la cronaca dell’esploratore Francesco De Marchi, che riportava una data incredibile: il 19 agosto del 1573.

“La vita del De Marchi – prosegue Millanta – fu piena di avventure strabilianti. Primo a immergersi nel lago di Nemi con un scafandro per cercare le navi di Caligola, inseguito dai corsari a Ponza, naufrago alla foce del Tevere, testimone di una eruzione del Vesuvio. Conobbe l’Abruzzo perché al seguito della corte di Margherita d’Austria. E lì, non appena vide la montagna, lanciò la sua personalissima sfida. Partì da Assergi, e ci racconta le difficoltà incontrate nella salita. Spesso si ritrova infatti in vene di roccia dove è impossibile continuare ‘se non con l’ali’, come ci dice lui. E allora inizia a scalare con le mani e con i piedi su questa pietra pericolosa, tanto da definire l’ascensione ‘cosa horrenda d’andarvi’. Ma alla fine, dopo più di 5 ore, riuscì a raggiungere la vetta. E lì, il De Marchi, si lascia andare”.

“Quand’io fui sopra la sommità, mirando all’intorno, pareva che io fussi in aria, perché tutti gli altissimi monti che vi sono appresso erano molto più bassi di questo”: a quel punto il De Marchi prese un corno e iniziò a suonare per la gioia, e racconta che dal monte vide uscire tantissimi uccelli, come stupiti nel vedere degli esseri umani arrivati fin lassù. Nel suo resoconto lo definì “il più alto e il più horrido di tutti i monti d’Italia”.

C’è però una notazione da fare: ad accompagnarlo c’era tal Francesco Di Domenico. Professione: cacciatore di camosci. Scelto perché in vetta c’era già stato in precedenza, divenendo di fatto lui il primo conquistatore del Gran Sasso documentato.

“Quota Mille finisce qui, ma non finiscono le storie che potete scoprire a queste altezze. Buon proseguimento del viaggio quindi in questo arcipelago di altitudini che aspetta solo voi, per essere esplorato”  conclude Peppe Millanta.

Su https://www.facebook.com/peppemillanta, è possibile trovare tutte le puntate di Quota Mille.

 

by Redazione
castel del monte

Castel del Monte (Aq), 1.346 m.s.l.m., è uno dei Borghi più belli d’Italia; posto all’interno del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, è arrampicato sul Monte Bolza si affaccia splendidamente sulla valle del Tirino.

Pochi luoghi come questo sono riusciti a custodire le antiche tradizioni di un mondo ormai scomparso, rendendole volano per il turismo.

La storia di questi luoghi è antichissima: proprio qui infatti fu combattuta nel 324 a.C. la guerra che vide prevalere i romani sui vestini. “A ricordarcelo – spiega lo scrittore abruzzese Peppe Millanta – è il colle chiamato non a caso “della Battaglia”, dove sono presenti ancora i resti dell’antico insediamento italico”: ed è qui che si concentra una nuova puntata di Quota Mille, rubrica a cura di Paolo Pacitti, con le telecamere Rai di Sem Cipriani.

“Successivamente – prosegue Millanta – fu ricostruito un abitato romano, ma quando fu distrutto secoli dopo con l’arrivo dei longobardi gli abitanti si incastellarono: il nuovo abitato fu così chiamato ‘Ricetto’, ovvero ‘Ricettacolo’ di genti fuggiasche, e corrisponde alla parte più arroccata del paese odierno, che contiene al suo interno chiare tracce medievali”.

La ricchezza del borgo è legata alla transumanza, complice la vicinanza con la piana di Campo Imperatore. E a ricordarlo è la chiesa, detta Madonna dei Pastori, che sorge quasi a strapiombo sulla sottostante valle.

I proprietari delle greggi facevano a gara per abbellirla, e di particolare rilevanza è il grandioso altare in legno scolpito, e rivestito in oro, capolavoro dell’arte barocca. Al centro è possibile vedere anche una statua della Vergine, vestita con l’antico costume del paese.

Come riporta Millanta: “Proprio questa statua è al centro di un rito dove riecheggia l’antico mondo transumante: il 2 luglio infatti, nel giorno in cui i pastori tornavano a casa, la statua della Madonna viene portata in processione presso un’altra chiesa, per poi venire riportata qui l’8 settembre, quando i pastori tornavano si preparavano a ripartire”. 

Uno dei problemi principali dei centri fortificati in alta quota è la perenne mancanza di spazio, a Castel del Monte la popolazione ha cercato di rimediare con un sistema caratteristico: gli sporti ossia archi che vanno a formare delle gallerie, scavate nella pietra, che coprono le strette vie del borgo, permettendo così al di sopra di sviluppare due o più piani abitati, guadagnando spazio per le abitazioni.

Il loro fascino arcano ha permesso il fiorire di leggende, come quella delle streghe, tramandataci dal poeta pastore Francesco Giuliani, che racconta come questa fosse una via magica, che permetteva alle donne del paese di scacciare via le streghe che attentavano alla salute dei neonati.

“Ma c’è anche un’altra curiosità che vi voglio raccontare – conclude Millanta – Si tratta della pietra, posta al di fuori della chiesa di San Rocco. Ebbene, sopra di essa venivano conclusi, in una sorta di patto sacrale, gli accordi fatti tra gli abitanti che prevedevano prestiti. Una sorta di pietra dei contratti potremmo dire: quanto veniva prestato, come ad esempio del cibo in anni di magra, andava restituito qui, sotto gli occhi del santo”. 

Il viaggio tra i borghi d’Abruzzo continua su Buongiorno Regione; novità, curiosità e qualche piccola anticipazione sono sulla pagina Facebook  https://www.facebook.com/peppemillanta, dov’è possibile saperne di più anche sulla puntata dedicata a Castel del Monte.

 

by Redazione
campotosto

Campotosto (Aq) 1.420 metri sul livello del mare, è uno dei centri abitati più elevati dell’Appennino: è rinomato per il suo magnifico lago, a cui dà il nome.

È posto all’interno del Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga e il suo territorio, scarsamente antropizzato, restituisce un ambiente montano quasi del tutto integro.

Il nome sembrerebbe venire dalla lunga disputa per il possesso di questi territori tra l’Aquila e Amatrice. Una lotta senza esclusioni di colpi, che portò anche all’incendio dei campi, da cui campo tostato, e poi Campotosto.

I numerosi eventi sismici che si sono succeduti nel tempo danno oggi al paese uno stile architettonico piuttosto moderno, con poche rimanenze di tracce storiche.

Del passato resta una piccola chiesa dedicata a Santa Maria Apparente: “Leggenda locale racconta che nel 1604 la Madonna apparve a una giovane muta del luogo, intenta a fare i panni nel vicino fiume: voleva che le venisse eretta una chiesa, e ne disegnò la pianta a terra con una nevicata fuori stagione. La ragazza, allora, tornò in paese e miracolosamente fu in grado di raccontare, con la sua voce, l’accaduto”.

Così spiega lo scrittore Peppe Millanta che con le telecamere Rai e Sem Cipriani ha raggiunto il posto per la rubrica a cura di Paolo Pacitti,  Quota Mille.

Nell’area di Campotosto è ancora presente la poesia a braccio, tipica dei pastori transumanti, che improvvisano usando la difficilissima tecnica dell’ottava rima.

La sua origine risale ai tempi antichi quando i pastori, durante i lunghi viaggi e le lunghe solitudini con le greggi, imparavano a memoria i versi di classici come Dante, Ariosto o Tasso.

Quei libri, veri e propri tesori, una volta finiti venivano lasciati lungo i tratturi, a disposizioni degli altri pastori, in una sorta di bookcrossing pastorale.

Erano costretti a farlo di nascosto perché i padroni delle greggi non vedevano di buon occhio lo studio, che era in qualche modo “sospetto”, portatore di ribellione.

E quei versi, quel ritmo, diventavano la base per inventare nuovi versi, spesso in risposta a un altro poeta in un vero e proprio ‘certamen’.

La tradizione della poesia a braccio qui ancora sopravvive e ogni anno è celebrata in una gara che si svolge a Mascioni che accoglie decine di turisti e curiosi.

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by Redazione
scanno

Scanno (Aq), 1.050 metri sul livello del mare, una delle perle d’Abruzzo, si trova nella meravigliosa Valle del Sagittario. Storia, arte e natura rendono il paese uno dei più apprezzati della Regione abruzzese, e l’omonimo lago le conferisce un tocco magico che ha pochi eguali.

“E’ davvero impossibile descrivere tutte le bellezze di questo posto, famoso per i fotografi che l’hanno immortalato, per gli abiti tradizionali, per l’arte orafa, per il suo centro storico: ogni angolo di Scanno ha infatti una bellezza da mostrare. Ogni vicolo è una meraviglia da scoprire”  esordisce lo scrittore Peppe Millanta che con le telecamere Rai e Sem Cipriani ha raggiunto il posto per la rubrica a cura di Paolo Pacitti, Quota Mille.

“E allora – prosegue Millanta – voglio soffermarmi su un suo scorcio, dove c’è una fontana, chiamata Sarracco, con i suoi due tipici archi. A risaltare subito sono i suoi mascheroni, che nascondono una curiosità: servivano infatti a far capire il ceto sociale delle persone che vi venivano a bere”.

“Sul primo infatti – spiega – è raffigurato il re, e vi bevevano i nobili maschi. Sul secondo c’è una regina, e vi bevevano le nobili donne. Nella terza c’è lo zoccolante, e vi bevevano i lavoratori. Nella quarta, infine, c’è un frate cappuccino, e qui bevevano frati, preti, suore e viandanti. Ma non finisce qui: in basso a sinistra c’è quest’altra cannella, posta più in basso: probabilmente serviva per i bambini. Quindi, quando verrete qui, occhio a dove bevete”.

Scura Maje, una delle canzoni abruzzesi più conosciute, utilizzata anche da Nino Rota in un film della Wertmuller: è il lamento di una vedova e ha origini antichissime. Pochi però sanno che questa canzone si è salvata fino a oggi grazie a un incontro fortuito.

E’ il 5 dicembre del 1952 quando a Scanno arriva un americano spettinato con un’enorme attrezzatura dietro: si chiama Alan Lomax, e di professione va a caccia di canzoni nei posti più remoti del pianeta.

Lomax domanda a tutti da chi possa ascoltare dei canti tradizionali, e la risposta è sempre la stessa: da Giuseppillo, al secolo Giuseppe Gavita, il menestrello di Scanno.

E le indicazioni lo portano dritti ad un’edicola: Giuseppillo infatti alternava al lavoro di giornalaio quella di cantore in matrimoni, battesimi e cerimonie.

Era un personaggio unico, amato da tutti per il suo buonumore e per l’amore per la vita nonostante fosse stata dura con lui: aveva infatti una gamba di legno, che divenne però bersaglio della sua ironia.

In pochissimo viene organizzata l’orchestrina. Lomax piazza i microfoni. Guarda Giuseppillo per vedere se è pronto. Poi preme rec. E lì, inizia la magia.

Giuseppillo inizia a cantare. Dietro di lui una chitarra e un violino. E canta a lungo, come sempre. Lomax è incantato.

Di quell’incontro restano un pugno di canzoni, salvate dalla dimenticanza e divenute oggi preziosa testimonianza, e il sorriso di Giuseppillo, che donò la sua voce a quello strano tipo americano.

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by Redazione
San Pietro della Ienca

San Pietro della Ienca, 1166 m.s.l.m. distante circa 20 chilometri da l’Aquila: si tratta di un piccolo gioiello posto alle pendici del Gran Sasso, ed è uno dei luoghi più suggestivi della regione.

Si trova nella valle del Vasto, all’interno del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, e vive oggi una seconda vita grazie al turismo religioso.

Non ci sono notizie certe sulla fondazione del borgo, ma secondo alcuni nacque prima dell’anno mille a seguito della distruzione della vicina Forcona ad opera dei Longobardi.

Le telecamere Rai con Sem Cipriani son partite alla volta di questo splendido borgo, per conoscerne la storia e le sue peculiarità, insieme allo scrittore Peppe Millanta per la rubrica a cura di Paolo Pacitti,Quota Mille.

“Di certo, fu uno dei villaggi fondatori della città dell’Aquila: e fu proprio l’attrattiva del nuovo insediamento, con le sue possibilità di commercio, a causare a poco a poco lo spopolamento di questo borgo già nel XIV secolo – spiega Millanta – Il paese oggi si compone di pochissime abitazioni in pietra, un tempo antiche dimore di pastori che venivano qui per la transumanza verticale. Ma a colpire subito l’occhio è una bellissima chiesetta, oggi Santuario di Giovanni Paolo II”.

Il Papa infatti scoprì questo luogo per caso: era solito andare a sciare a Campo Imperatore quando a causa della eccessiva neve rimase bloccato da una bufera che lo costrinse a fermarsi qui, dove tornò spesso anche in seguito rapito dagli scenari, per immergersi in preghiera.

Fu proprio lui che incentivò il recupero del posto, e oggi la chiesa ospita una sua reliquia a simbolo della sua presenza in questo luogo, ed è diventata meta di pellegrinaggio.

E poco lontano da San Pietro, nella frazione di Assergi, c’è Grotta a Male, un tempo Amare, nel senso di impervia, che nasconde un primato inaspettato: è considerata la prima cavità esplorata in senso speleologico in Italia.

Francesco De Marchi, per primo esplorò la Grotta il 20 agosto del 1573, mentre rimaneva affascinato dai disegni scolpiti dall’acqua sulla roccia.

E in effetti lo stupore è tanto mentre si attraversano i vari ambienti, tra cui la Sala dell’Organo, chiamata così per il suono prodotto dall’acqua, e la Sala della Croce, per una croce incisa proprio dal De Marchi durante la sua esplorazione.

“In seguito – spiega lo scrittore – la Grotta è stata studiata in maniera approfondita, e oggi sappiamo che era in età preistorica un luogo di culto e di sepoltura, oltre che di lavorazione dei metalli: all’interno infatti sono stati trovati i resti di una fornace. Quella del De Marchi fu un’impresa davvero eccezionale se pensiamo alle attrezzature del tempo, e alla sua età: andava infatti per i 70 anni. Oggi, con la giusta attrezzatura e l’aiuto di professionisti, è possibile ripercorrere i suoi passi grazie a un percorso tracciato e un sistema di illuminazione”.

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sperone

Sperone, con la sua storia costellata da continui e repentini mutamenti, è l’emblema di molti degli sconvolgimenti che sono avvenuti nella Marsica.

Situato alle porte del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, la sua vicenda è oggi una testimonianza unica del territorio abruzzese.

Borgo Sperone, frazione di Gioia dei Marsi (Aq), “al di sotto della nostra QuotaMille: questa storia, infatti, parte da molto molto più in alto. Esattamente da qui, da quello che era l’antico borgo di Sperone, oggi chiamato Torre Sperone, posto a 1224 m.s.l.m., a cavallo tra la valle del Giovenco e la piana del Fucino”.

Così lo scrittore abruzzese Peppe Millanta, illustra “l’area protagonista” di una nuova puntata di Quota Mille, rubrica a cura di Paolo Pacitti e le telecamere Rai con Sem Cipriani.

Il nome deriverebbe da quello di due antichi castelli presenti un tempo nella zona: Sparnasio e Asinio, che si unirono formando il primo centro abitato, chiamato nel medioevo Speron d’Asino.

Caratteristica è la sua torre, costruita dai conti dei Marsi per controllare il vicino passo. Era in collegamento visivo con analoghe strutture militari che all’epoca cingevano tutto il lago Fucino.

“Venute meno le esigenze difensive – spiega Millanta – il borgo perse a poco a poco di importanza. Ma il colpo definitivo lo ebbe il 13 gennaio del 1915, con il terremoto della Marsica”.

S’è fatta d’improvviso una fitta nebbia. I soffitti si aprivano lasciando cadere il gesso. Tutto questo è durato venti secondi, al massimo trenta. Quando la nebbia di gesso si è dissipata, c’era davanti a noi un mondo nuovo…

così Ignazio Silone racconta quanto avvenuto durante il terremoto della Marsica. Venti secondi che distrussero tutto. E Sperone non fu da meno. Anzi: la terminazione meridionale della faglia, ancora oggi visibile, terminava proprio sotto di lei. Non rimase nulla.

Per questa ragione si decise di non ricostruire l’abitato nello stesso sito, ritenuto troppo pericoloso, ma di spostarlo più a valle.

“Furono costruite perciò queste casette dove la popolazione superstite si insediò, in quella che venne chiamata Sperone Nuovo. La vita però continuava ad essere difficile, tanto che gli abitanti dovettero farsi sentire per farsi costruire almeno una strada che potesse permettere l’arrivo di figure fondamentali come medico, maestri e ostetrici” racconta lo scrittore.

Ma il viaggio di questo borgo, questo suo rotolare verso il basso, non era ancora terminato: negli anni ’60, per le mutate condizioni economiche, la popolazione fu spostata infatti ancora più a valle, in un incasato costruito appositamente per loro e più comodo a livello di servizi: Borgo Sperone, proprio di fianco a Gioia dei Marsi.

Si tratta dell’ultima tappa di un viaggio iniziato più di 100 anni fa, che in un percorso ideale racconta tanto dei cambiamenti avvenuti in Abruzzo nel ‘900. Un viaggio quindi a ritroso nel tempo e soprattutto nella memoria.

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by Redazione
Roccacerro

Roccacerro (Aq) 1.170 metri sopra il livello del mare, una frazione del comune di Tagliacozzo da cui dista solo 4 chilometri. Sita alle pendici del monte Bove, domina la sottostante piana dell’Ara dei Pali, fondamentale luogo di passaggio della Marsica occidentale.

Distese di boschi di querce e di castagne e profili di dolci montagne cingono il pittoresco centro: le telecamere Rai con Sem Cipriani si sono spinte fin qui insieme allo scrittore Peppe Millanta per una nuova puntata della rubrica a cura di Paolo Pacitti,“Quota Mille”.

Nel Medioevo il centro era noto come Rocca Cerri, e si sviluppò tutto intorno al centro fortificato, posto nella parte più alta del paese a guardia del passaggio sottostante.

Da non perdere è la Chiesa di Santa Maria degli Angeli, edificata nel ‘700 su quello che rimaneva dell’antica rocca e della sua torre-cintata, che fu trasformata in campanile, acquisendo così il suo profilo caratteristico.

A causa della sua posizione strategica lungo la via Tiburtina Valeria, Roccacerro fu bombardata nel ’44 dagli alleati, per isolare le contraeree naziste presenti.

Sfortuna volle che il bombardamento avvenne proprio di domenica, nell’orario di uscita dalla messa, e una bomba cadde al centro della piazza. Fu una strage. L’episodio è ricordato da una targa ed ogni anno si svolge una commemorazione.

“E proprio a Roccacerro – spiega Millanta – è stata scattata una fotografia che nasconde una storia. Fu realizzata in una fredda giornata d’inverno di quasi 100 anni fa, dopo una nevicata che aveva ammantato tutto il paesaggio: sono però ben visibili il monte Bove sullo sfondo e il profilo del paese, con il campanile al centro. A realizzarla fu Thomas Ashby, un archeologo britannico e un vero pioniere nello studio della nostra regione. Ashby, venuto per la prima volta in Abruzzo per studiare il sito dell’antica Carsioli, si innamorò così tanto dei luoghi da tornarvi più volte tra il 1901 e il 1923. Lo fece per preservare i volti, gli usi e i costumi locali, avendo intuito che quel mondo stava per scomparire, inghiottito per sempre dalla modernità”.

“Bisogna fare di tutto per raccogliere quello che inesorabilmente sta scomparendo”, diceva. E compì allora un’operazione a quel tempo poco diffusa: produsse un corpus fotografico, oggi divenuto di fondamentale importanza, il cui valore non è dato tanto dalla perizia tecnica, spesso amatoriale, ma dalla singolarità degli eventi fotografati.

La riscoperta di questo corpus e di questo personaggio è avvenuta soltanto alcuni anni fa, e continua ancora oggi, con la stessa forza, a raccontare di un tempo che fu.

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by Redazione
pescasseroli

Pescasseroli (Aq), 1.167 metri sopra il livello del mare, proprio nel cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo; adagiato in una conca posta all’ingresso dell’Alta Valle del Sangro, il borgo è circondato da boschi centenari e montagne suggestive. È meta ogni anno di migliaia di turisti attratti dalle sue bellezze storiche e naturalistiche.

La parte più antica dell’abitato è costruita ai piedi di uno sperone, detto il “Pesco”, su cui si trovano i resti di un presidio che controllava l’altopiano denominato Castel Mancino.

Pescasseroli deve molta della sua importanza al tratturo che da qui portava a Candela, in Puglia. E quella via permise nei secoli lo scambio di idee, di credenze, e di manufatti. Come la Madonna Nera dell’Incoronata, probabilmente proveniente dall’Oriente, come altre dello stesso tipo, e arrivata fin qui grazie all’antico percorso.

Le telecamere Rai con Sem Cipriani si sono spinte fin qui insieme allo scrittore Peppe Millanta per una nuova puntata della rubrica a cura di Paolo Pacitti,“Quota Mille”.

“Oltre che per le sue bellezze naturalistiche, Pescasseroli è rinomata anche per aver dato i natali a Benedetto Croce, uno dei maggiori protagonisti della cultura italiana ed europea del ‘900. E proprio al suo ritorno qui, ormai adulto, donò il manoscritto di una delle sue opere più importanti: la Logica, che ora è custodito nell’archivio comunale. La fontana di San Rocco è uno dei simboli dell’avventura che più di tutte ha cambiato il destino recente delle nostre montagne: la nascita del Parco Nazionale d’Abruzzo. Avventura che si deve al sogno testardo di un visionario: Erminio Sipari” racconta Peppe Millanta.

Risiedeva a Pescasseroli, e da molti viene considerato uno dei padri dell’ambientalismo, che lottò per la salvaguardia della natura e per la tutela di animali in via d’estinzione come il camoscio e l’orso marsicano.

L’Alto Sangro, grazie al suo isolamento, aveva luoghi ancora incontaminati da preservare, e Sipari lavorava da questo paese per creare un’area naturale sul modello di Yellowstone.

La politica però rimase sorda ai suoi appelli, e Sipari allora si mosse in autonomia e prese in affitto 100 ettari che destinò a riserva protetta: si trattava del primo parco nazionale istituito in Italia, benché in forma privata.

“Ormai era fatta – spiega Millanta.– L’istituzionalizzazione arrivò nel 1923, e da allora il Parco è cresciuto in estensione e in iniziative. C’è una cosa che colpisce negli scritti di Sipari: l’idea che le meraviglie della natura facciano parte del patrimonio artistico di un paese. Una natura quindi da tutelare e ammirare come se fosse un’opera d’arte”. 

E a ricordare l’inizio di quella avventura ci sono soprattutto le numerose specie animali salvate dall’estinzione, e un modello di gestione diventato un punto di riferimento per tutto l’ambientalismo italiano.

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Frattura

Frattura, aggrappata a uno dei panorami più suggestivi d’Abruzzo, ricalca uno dei momenti più drammatici della regione Abruzzo. È posto a metà tra due mondi: da un lato il paesaggio lunare del Monte Genzana, dall’altra i boschi lussureggianti della Valle del Sagittario, con la vista unica sul lago di Scanno.

Frattura Vecchia, si trova a 1307 metri sopra il livello del mare, a qualche chilometro dal centro abitato di Scanno (L’Aquila): il borgo fu fondato dai conti Di Sangro intorno al X secolo e il nome deriva dalla frana, ancora oggi visibile, che in epoca preistorica sbarrò il sottostante fiume formando così il lago di Scanno. Le telecamere Rai con Sem Cipriani si sono spinte fin qui insieme allo scrittore Peppe Millanta per una nuova puntata della rubrica a cura di Paolo Pacitti,Quota Mille.

A differenza dei paesi vicini, che riportarono solo alcuni danni, Frattura fu completamente spazzata via dal terremoto del 1915, circostanza strana vista la lontananza dall’epicentro.

“La colpa fu proprio dell’antica frana su cui Frattura fu costruita: il materiale incoerente che viene smosso da una frana amplifica l’onda sismica, causando maggiori danni rispetto a edifici posti su un terreno roccioso –  spiega Peppe Millanta. – Fu una vera tragedia. Le vittime furono 120, quasi l’intera popolazione presente. Si trattava per lo più di donne e bambini, perché gli uomini transumavano in Puglia o erano emigrati negli Stati Uniti”. 

“Oggi l’unico abitante qui sembra essere il silenzio, e lo stupore nel vedere il paese restato immobile, come se fosse incastrato nell’ultimo frame della tragedia. Ma dove la storia di Frattura Vecchia finisce, inizia quella di Frattura Nuova” continua Millanta.

Dopo un periodo in cui gli abitanti furono spostati in un campo di casette prefabbricate, tra il 1932 e il 1936 fu infatti edificato il borgo nuovo. E a farlo fu Mussolini in persona: “Siamo in pieno regime fascista, e lo si nota dagli stilemi urbanistici tipici: gli edifici sono tutti perfettamente allineati e con linee pulite e semplici, mentre gli edifici pubblici sono posti al centro, come la chiesa e la scuola”.

Nel 1917 infatti, durante la Grande Guerra, Mussolini si trovava sul Carso quando durante un’esercitazione fu ferito da una pioggia di schegge. E pare che proprio in quel frangente fu salvato da un abitante di Frattura, all’epoca appena distrutta dal terremoto, che gli raccontò la sua sciagura. Dopo 20 anni il Duce saldò il suo debito costruendo tre caseggiati, marchiati con le prime tre lettere dell’alfabeto.

Oggi Frattura ospita il Museo delle Arti e delle Tradizioni Popolari, un vero e proprio museo etnografico dove viene raccontata la storia di Frattura Vecchia, e la costruzione del nuovo borgo.

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Santo Stefano di Sessanio

Santo Stefano di Sessanio (Aq), 1.251 metri sopra il livello del mare, si trova a ridosso del Gran Sasso: è una delle perle d’Abruzzo; vicino alla piana di Campo Imperatore, fa parte anche del Club dei Borghi più belli d’Italia.

Inoltre il borgo è compreso all’interno del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga.

Il paese venne eretto tra l’XI e il XII secolo sui ruderi di un pago chiamato Sextantia, da cui il nome attuale, che indicava la distanza di sei miglia romane da Peltuìnum, al tempo crocevia dei traffici che da Roma portavano sull’Adriatico.

Il nucleo centrale è l’imponente Torre, intorno alla quale il paese si è sviluppato con le caratteristiche case-torri e case-mura medievali.

Le telecamere Rai con Sem Cipriani si sono spinte fin qui insieme allo scrittore Peppe Millanta per una nuova puntata della rubrica a cura di Paolo Pacitti, Quota Mille.

“Una curiosità romantica – spiega lo scrittore – tra i suggestivi vicoli di Santo Stefano potreste imbattervi in un piccolo passaggio chiamato Buscella. Si racconta che nel medioevo i giovani innamorati si dessero appuntamento proprio qui per rubarsi baci fugaci, approfittando della strettoia che li costringeva a sfiorarsi”.

“Santo Stefano di Sessanio – prosegue Millanta – raggiunse il suo massimo splendore alla fine del ‘500, quando divenne possedimento della potente famiglia dei Medici che giunse qui attratta dalle numerose greggi presenti e in particolare dalla “carfagna”, una lana molto pregiata per il tempo, morbida e naturalmente colorata per la presenza di pecore nere, che veniva utilizzata per le uniformi militari e per il saio dei monaci e venduta in tutta Europa”.

Santo Stefano divenne così la base operativa dei Medici: la lana veniva prodotta qui e poi lavorata a Firenze; oggi quella qualità di pecore non viene più allevata, ma Santo Stefano ha recuperato la sua tradizione.

La famiglia dei Medici è ricordata soprattutto per le banche, ma il loro potere si fondava soprattutto sulla filiera della lana: una vera e propria macchina di consenso, che dava lavoro a moltissimi fiorentini che hanno sostenuto la famiglia in molti momenti critici, come la “congiura dei Pazzi”.

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